venerdì 13 novembre 2009

Prefazione /Postfazione

Riguardando l’ultimo numero di Notizie in circolo, preparando un nuovo articolo e pensando a quanto avevamo già pubblicato ho pensato che poteva essere una bella cosa raccogliere quello che avevamo scritto io ed Andrea sull’Unipol in questi ultimi 2 anni. Ne abbiamo parlato e il risultato è il volumetto che avete fra le mani.
Perché raccogliere una simile “storia” ? Sul finire dell’800 i grandi romanzi di appendice, i feuilleton , venivano pubblicati a puntate sui giornali e successivamente raccolti in un libro.
La storia di Unipol è un grande racconto popolare, un romanzo d’appendice, con i suoi personaggi, i suoi eroi, i buoni ed i cattivi. Ed è anche la nostra storia, una storia comune a tutti, a quanti sono qui da 27 anni come me, ai colleghi appena arrivati, ai colleghi “aggregati” da altre compagnie.
Non è importante averla vissuta insieme o averla vissuta tutta, è importante conoscerla , per poter capire , per poter scegliere. Anche per noi, in piccolo, Historia Magistra Vitae (Cicerone, De Oratore, II ) e conoscere ci mette veramente nella condizione di capire.
Questa storia l’abbiamo vista , io ed Andrea,da angolazioni diverse e in una diversa visione temporale.
Io ho cercato, in qualche modo , di fare il cronista con velleità di articolo di fondo, raccontando ed interpretando questi ultimi due anni, cercando di dare corpo e risposta alle voci che si perdevano nei corridoi.
L’ obiettivo non era quello di parlare di grandi strategie di rivendicazioni grandi o piccole, ma quello di capire, di fare parlare, capire cosa e perché ci stava succedendo, dove stavamo andando.
Capire o cercare di capire, in fondo è lo stesso; andare oltre alla “pancia”, al ribollire dei sentimenti, lasciarli fluire, riposare, guardarci dentro.
Non so se ci sono riuscito; rileggendo queste pagine colorate alcune cose erano veramente giuste. Lascio a voi l’eventuale piacere di leggere e trovare. Insomma, si è parlato tanto di Unipol, di soldi, di banche e di giudici; questa vorrebbe essere la nostra versione, la storia vista dal nostro punto di vista, di chi in questa vicenda non ci ha guadagnato soldi, ma ci ha rimesso qualcosa che non riesce ancora a quantificare ed a capire.
La “storia” così raccontata comincia a febbraio 2006, poco più di 2 anni fa, dopo le dimissioni di Consorte e Sacchetti, dopo l’assedio dei giornalisti a Via Stalingrado. Quei giorni sembrano ormai lontani, come è lontano il clima di tensione, ma anche di speranza che si respirava.
Poi mese dopo mese, puntata dopo puntata, le cose sono cambiate prima lentamente, poi ad una velocità impressionante. Talmente veloce che non sembra più di fare parte di questa storia , ma di essere dei semplici spettatori, che la vedono sfrecciare dal finestrino della macchina
E’ stato un rischio far scivolare queste pagine, talvolta serie e pallose, all’interno di un contenitore come il giornalino del Circolo, conosciuto ed apprezzato per la capacità di far ridere. ( cazzeggiare)
Ma in questi ultimi due anni il riso del giornalino del circolo è diventato adulto, ricordando più Pasquino che l’impiegato frustrato. Credo che in questi 2 anni il giornalino sia stato anche l’immagine del cambiamento di Unipol, ovvero di quanto questo cambiamento, così subito, stava provocando in Unipol
La parte di Andrea è l’altra faccia della medaglia, ovvero la Storia, già più lontana dalla cronaca spicciola.
E fa anche un po’ male passare dalla storia alla cronaca dei giorni nostri: la cronaca è molto più misera , c’è meno epica. E poi manca il lieto fine, alla fine manca il pathos e mancano anche gli eroi senza macchia né paura: tutto diventa un po’ grigino, indistinto. Tutto alla fine sembra già scritto, senza possibilità di scampo o di redenzione;ma la parola fine non è stata ancora scritta .
“E’ gol quando arbitro fischia.” ( Boskov V. interpretazione di Cicerone) Quanti minuti mancano ancora alla fine?

La Fontana

Presidente e Vicepresidente dell’Unipol rimangono coinvolti nelle
vicende giudiziarie che “colpiscono” i cosiddetti “ Furbetti del quartierino”
La vicenda che pare riguardare Unipol è quella relativa all’OPA
su BNL: un gran numero di intercettazioni telefoniche, qualche
dichiarazione da tifoso, persino tracce di qualche pranzo di cui
ignoriamo, comunque, il menù (che pare essere l’unica cosa interessante).
L’affaire BNL non ha,però, al momento, dei precisi
risvolti giudiziari; ma dall’enorme calderone che contiene
una bella fetta delle vicende economiche italiane degli ultimi
anni saltano fuori 50 milioni ( circa) finiti sui conti ( a Monte
Carlo) dei vertici di Unipol. 50 milioni hanno la coda lunga , ed una giustificazione che lascia molte perplessità in giro: pagamento di una consulenza.
Si apre il fuoco di fila sul presidente ed il suo vice, si lasciano intravedere ( si sperano, si temono,? Qualcuno arriva contemporaneamente a sperare e a temere) rapporti con il partito cui sono iscritti ( i DS); i giornalisti assediano l’Unipol ed i suoi dipendenti.
Un assedio continuo ed insistente; certo, viene inquadrato più il garage che l’edificio di Unipol (un errore ?) , e la fontana diventa più famosa di quella del Nettuno.
Ma i giornalisti non mollano la preda, e Unipol conquista la prima pagina di tutti i quotidiani ed il primo titolo di tutti i telegiornali.
Intanto la Banca d’Italia ( versione No-Fazio) dà parere negativo all’ OPA di Unipol su BNL;Unipol “vende” istantaneamente la sua quota di BNL ai francesi, e tutti sono contenti, tutti hanno fatto un affare.
Non si sa com’è, ma tutti, chi ha comperato, chi ha venduto, chi ha rivenduto, tutti hanno fatto un affare. Non succede mai, ma questa volta sì.
La vicenda legale non è risolta, i 50 milioni di dollari sono ancora lì, ma non sui giornali, non più sulle prime pagine; è finita con la fine dell’assalto a BNL.
Che ci si sia trovati solo davanti ad uno dei tanti temi macinati nell’arco di una lunga campagna elettorale?
Sono rimasti dov’erano, senza più il contorno di giornalisti e cine operatori, il palazzo nero dell’Unipol, il garage di fronte e la fontana. In mezzo, ogni tanto i dipendenti.
Più mese di assedio, di cretini (che vogliono essere divertenti) con una telecamera attaccata alla fronte che ti chiedono “Vi sentite ancora diversi ?”
Di amici che ti guardano e ammiccano oppure si arrabbiano con te e ti chiedono “Ma come avete fatto a non accorgervi di niente?”(Ma accorgersi di cosa?)
Di assicurati che temono per i loro soldi ( Non farete come Fiorani che fregava i soldi dai conti correnti? No , signora, i suoi soldi sono tutti qui,più di quelli che ha versato.
Mese di Soloni , più o meno amici e compagni, più o meno importanti, che si danno di gomito e si ripetono “ve l’avevo detto io che finivate male, altro che comperare una banca”.
Ma cosa era successo? ci sono stati poi 15 giorni in cui il mondo è cambiato velocemente, si è capovolto.
Il 23 dicembre la presidenza incontra una rappresentanza dei dirigenti dell’azienda (direttori centrali e assimilabili). Il messaggio, per quel che si riesce a sapere, è rassicurante: non abbiamo niente da temere, si va avanti così.
Così il 27 Dicembre arriva l’annuncio delle dimissioni, che si concretizzano il 5 gennaio.
Il 9 gennaio viene nominata la nuova presidenza; una settimana dopo (meno di un mese dal 23 dicembre), gli stessi dirigenti incontrano una nuova presidenza..
E tutti gli altri dipendenti? nessuno li convoca, nessuno spiega cosa stia succedendo, nessuno da indicazioni o chiavi di lettura.

Uno scarno volantino sindacale l’11 gennaio , la prima comunicazione della presidenza il 6 Febbraio, per comunicare che la partita BNL e definitivamente chiusa e si torna a casa (almeno) con i soldi.
Ognuno ha dovuto formarsi una ”sua” opinione, attingendo alle fonti che poteva: giornali, televisione, chiacchiere di corridoio, i si dice dei bene informati, e con queste armi molti hanno dovuto affrontare, con grande dignità, telecamere microfoni e taccuini.
Una vera Caporetto informativa.
Anche perché (e forse proprio per questo) i dipendenti Unipol sono proprio dipendenti, non cooperatori (rossi) delusi e un po’ incazzati, come qualcuno li vorrebbe vedere .
Primo perché l’azienda è una S.p.A., ed i dipendenti non sono soci .
E poi perché è cambiato il DNA, che non è più quello dei “padri fondatori” del palazzo del cane di Via Oberdan.
Negli uffici di Via Stalingrado si incrociano strade molto diverse , ci sono figure nuove ( gli addetti del call center), non ci sono più molti visi vecchi ( dei colleghi storici e carismatici), ci sono i “reduci” di tutte le compagnie di assicurazione (chiuse) di Bologna ( Latina renana, Universo.,M.M.I.) e di Ferrara ( Navale) e altri ancora.
Facendo due conti quasi la metà dei dipendenti è dentro l’azienda da meno di 5 anni; è difficile in queste condizioni avere una coscienza/conoscenza comune…
E se ci si pensa, se si va più in là dello scandalo, della campagna elettorale del qualunquistico (e comodo) “qui tanto rubano tutti “ ( NB : non sappiamo ancora cosa e a chi è stato fatto il colpaccio…) , c’è dell’altro, ma è necessario riflettere, parlarne .
Non proprio quello che è successo in questo periodo, insomma.
Il problema non è che tanto che siamo saltati fuori i 50 Ml; certo si può porre una questione morale, sarà un problema per la ex presidenza spiegare il perché, il come ed il dove.
Il problema maggiore è un’eredità non tanto inattesa: la scoperta dell’accentramento del potere , oppure, detta come si legge sui giornali, il problema della Governance. Una sorpresa che non è tale né per i dipendenti né per gli azionisti.
Il forte accentramento, il vuoto intorno ha sicuramente consentito a chi era in alto di potersi muovere con velocità e assoluta autonomia nel bene e nel male ( NB: l’unica accusa rivolta finora direttamente a Unipol riguarda il decreto legislativo 231, relativo, per l’appunto, alle procedure di controllo).
Da questa concentrazione di potere discende anche una logica che lascia poca autonomia a chi “sta sotto”, con l’azzeramento di quella che era ( tanti anni fa) la diversità di Unipol, di quella che era chiamata partecipazione e/o condivisione.
Un processo, infine, di parcellizzazione delle mansioni e di mancata crescita professionale, utile ad un controllo accentrato , ad un capire e scegliere delegato a pochi.
Questo, sia chiaro, nel bene e nel male: la posizione che occupa Unipol adesso da questo discende, è impossibile scindere aspetti positivi e negativi, perché entrambi figli delle stesse scelte.
Una maggior democrazia avrebbe portato a migliori risultati ?
Forse i risultati sarebbero stati peggiori. Forse.
Ma il momento non è quello dei forse, non è neanche quello dei si dice e delle piccole o grandi rivalse .
Adesso che gli dei sono caduti ed il piedistallo è vuoto, che succederà?- La scelta è importante, e sono importanti anche i segnali che verranno dati, segnali nei confronti dei “clienti”, certo, ma segnali anche verso il popolo dell’ Unipol; dipendenti, ma anche agenti.
Cosa si farà, si metterà sul piedistallo un nuovo demiurgo (o più di uno) , lasciando tutto come prima, lasciando che sia lui/loro a risolvere tutti i problemi ?
Oppure si investirà sul futuro di quest’azienda, ricostruendo procedure e rapporti, ridando ruolo a quanti vi lavorano?
Si deciderà che il metodo andava bene e che sono state le persone che hanno sbagliato (compagni che sbagliano ) ? Si rifonderà Unipol , oppure attenderemo un nuovo Re Sole ?
(continua…)

A CHE PUNTO E’ LA NOTTE

Lo ammetto. Avevo già preparato un altro articolo ed un altro titolo , ma lo spostamento a settembre dell’uscita del giornalino ha portato nuove idee e nuovi dubbi . “ Custos, quid Noctis ?”, citazione biblica (Isaia, 21,11) ma anche bibliografica: quanto resta della notte? La notte è quella che è cominciata ufficialmente il 27 dicembre con le dimissioni di Consorte e Sacchetti, ufficiosamente più o meno un anno fa, con le prime schermaglie sul tentato acquisto di BNL da parte di Unipol ? Ufficialmente, quindi, sarebbero passati 8 mesi dal momento più buio; sembra passato molto di più.

Ancora a giugno sembrava notte fonda: in prima pagina i 43 Milioni di Euro sequestrati alla ex presidenza; nelle pagine sportive, accanto alle quotazioni della squadra vincitrice del mondiale, impazzava il toto amministratore delegato.

Nelle pagine locali ( e, ahimè, anche nelle pagine nazionali della stampa, ma confondendo, colpevolmente, gli argomenti) era finito anche il nostro contratto integrativo, con gran stridio di denti, rumore di scudi e odore di battaglia. Ci ritroviamo, a fine estate e con l’Italia campione del mondo, un amministratore delegato nuovo di zecca e un integrativo ancora in piena trattativa. Nel silenzio delle pagine dei giornali, cessato (per il momento) il rumore delle spade intorno all’integrativo, è possibile sapere se ci sono e quali sono gli umori nell’agglomerato nero (ed in espansione) di Via Stalingrado e pertinenze?

A che punto è la notte, insomma.

Potremmo utilizzare , più come pretesto che come chiave di lettura,la vicenda legata all’integrativo, al di là di come evolverà, partendo dalla tensione e dalle aspettative che hanno caratterizzato questa prima parte del confronto .

Attesa ed aspettative che vanno ben al di là dello specifico confronto e che sembrano avere, prima di tutto, il desiderio di monetizzazione. Monetizzare, quantificare, farsi pagare la differenza che finora c’è stata fra “quanto prendiamo e quanto dovremmo prendere”. Recuperare il prezzo di una fedeltà, messa a dura prova dalle note vicende, in qualche modo umiliata dai famosi 43 ( ex 50 ) milioni, ovvero a noi la fedeltà agli ideali a “loro” 43 milioni. Ridurre la differenza di stipendio rispetto ai colleghi delle altre compagnie del gruppo, che magari lavorano alla scrivania a fianco alla tua e fanno il tuo stesso lavoro; differenza che è fatta di livelli in più, di un integrativo migliore, di minori carichi di lavoro. Recuperare gli anni in cui la crescita di chi lavorava (crescita di mansioni, di ruolo, di livello, di stipendio) era rimasta bloccata nella messianica attesa della formazione del grande gruppo, del raggiungimento di grandi obiettivi.

Non c’è più né l’attesa né il/i messia , quindi ci siano i soldi, o il loro equivalente. Quest’onda in piena sembra potere o volere travolgere tutto, ma ha davanti più di uno scoglio, e forse non sta andando nella direzione giusta. Sono evidenti le contraddizioni in seno al popolo, ovvero il rapporto con i colleghi delle altre compagnie ( o ex compagnie) di cui si invidia la situazione o i benefit . Anche loro , però, qualche invidia, qualche tarlo in fondo all’animo ce l’hanno in fondo “sono stati comperati” e, in questo

modo e in qualche modo, offesi anche loro; non risolvere questa distanza e questa diffidenza è più di uno scoglio, è un iceberg che rischia di arrivarci addosso , rischiando di mettere, in qualche modo, lavoratori contro lavoratori.

Ma c’è un grosso scoglio sott’acqua, cui bisogna prestare molta attenzione; il rimando al denaro o ad i suoi equivalenti non può farci dimenticare che c’è dell’altro.
A che punto è la notte?

La notte non è cominciata qualche mese fa ( 8 o 12, è indifferente); il buio riguarda almeno gli ultimi 10 anni. La storia degli ultimi dieci anni è stata una storia difficile che ha visto, sotto molti aspetti, i lavoratori “abbandonati”: mancanza di informazioni, mancanza di formazione, mancanza di crescita, pochi riconoscimenti . Poi , forse,in cambio, ad alcuni non era richiesto molto, mentre altri hanno lavorato in modo artigianale, costruendo in autonomia il proprio ambiente di lavoro, addirittura le procedure.

Come nei tempi di guerra e nel fortunato film di Nanni Moretti siamo stati degli autarchici: facciamo, abbiamo fatto, tutto da noi. Con grande orgoglio, con del sacrificio ( per chi ci credeva), lavorando con il fil di ferro e tanta inventiva , materia fondamentale per gli italiani, in particolare in tempi d’autarchia, quando la cicoria prende il posto del caffè.

Nel frattempo, ed in silenzio, la nostra autarchia , il nostro “essere i migliori” ( Avete visto il bilancio?, visto che risultati?) ci teneva lontano dal mondo. Negli ultimi 10 anni abbiamo continuato a lavorare come se nulla stesse cambiando intorno a noi: autarchici, eroici, forse semplicemente un po’ fessi. Il dubbio è che la strategia fosse molto semplice: un uomo solo al comando (due?), tutti gli altri a pedalare, portando più o meno borracce, scalando più o meno montagne, senza conoscere neanche il percorso della tappa.

Nel frattempo gli altri stavano cambiando le biciclette, cambiava la tecnologia, le comunicazioni e noi sempre curvi sulle biciclette e sul modello di sviluppo, di comunicazione, di tecnologia che ci aveva portato al successo; e se qualcuno ci avesse sorpassato? E qual è il nostro distacco
Ma non eravamo i migliori?

A che punto è la notte?
Un dubbio ci doveva venire; “conquistate” Meie, Aurora, Navale, Winterthur nessuno dei “nostri” degli uomini “marchiati” Unipol è salito sul ponte di comando brandendo la bandiera della vittoria. Un modello di understatement o, ancora una volta, la delega a poche persone della comprensione e la gestione dell’intero universo ? Guardandosi intorno, lavorando con i colleghi delle altre aziende del gruppo la certezza dell’essere i migliori vacilla; certo siamo stati diversi, la nostra autarchia ci ha permesso di crescere. Chi lavora con noi non è né migliore né peggiore, ma negli ultimi anni può aver avuto qualche opportunità più di noi, in un contesto che lasciava qualche spazio in più. Ma se chi adesso lavora a fianco a noi non è né migliore né peggiore è ora che sia restituito, a questi lavoratori “diversi” quello che è mancato loro in questi anni
Non c’è moneta che ripaghi una condizione lavorativa in cui sia negata la crescita, offesa la professionalità e frustrate le aspirazioni. Anche perché, venendo a mancare queste cose, anche il vile denaro non avrà più giustificazioni, non sarà più possibile richiederne. Ed è questo il rischio, strisciante.

Alcuni scricchiolii già si sentono; siamo l’azienda “comunista” per antonomasia, ma la lettura della pagina 65 dell’edizione di sintesi del Bilancio sociale dà qualche sorpresa. In alto, a destra, c’è un piccolo grafico, che si intitola Adesione ai sindacati del lavoratori del gruppo”. La compagnia di assicurazione più comunista del mondo ha un’adesione al sindacato del 56,1%, il gruppo Unipol ha il 63%. Ovvero le altre aziende hanno una percentuale di iscritti al sindacato superiore alla nostra; per arrivare al livello di Aurora gli iscritti al sindacato dovrebbero crescere del 30%.

Non male per degli sporchi comunisti…..; che cosa pensiamo del sindacato: che non ce ne sia bisogno ?, che tanto siamo tutti comunisti e non serve. Forse pesano in quel

basso tasso di sindacalizzazione i lavoratori del call center ; se è così. Vuol dire che loro pensano che questo sia un lavoro solo di passaggio ,che non sia possibile possa migliorare la loro condizione il loro lavoro. Hanno capito anche loro che è così? E possiamo permetterci la perdita di una simile ricchezza umana, del potenziale che esprimono questi lavoratori? Che poi hanno il diritto di essere quelli più incavolati di tutti….più si è incavolati e meno si è iscritti al sindacato? Che regola è?

Qualcosa non torna; insomma abbiamo bisogno di qualcosa di più che dei soldi; forse la parola che più si avvicina e sintetizza ciò che potremmo chiedere e dovremmo avere è la dignità. Dignità vuol dire riappropriarsi del proprio lavoro, chiedere che sia valutato per quello che è, poterlo far crescere, migliorare, renderlo anche, perché no, più profittevole. Crescere, migliorare, qualificarsi; non più artigiani ma artefici. E questa dignità non è povera, anzi; ci porta alla conoscenza del proprio lavoro del proprio ruolo, di quello che fa la propria azienda. E da questo anche un compenso equo.

Non sono parole lontane da quanto prospettato , quando la notte era più fonda, dalla nuova presidenza e ricordano, forse alla lontana, antichi ideali cooperativi e parole d’ordine ormai desuete: ripartire dal lavoro, dal nostro lavoro.

In azienda si parla di un piano triennale, di cui , in realtà, sappiamo poco; mai come in questo momento dovremmo sentire la mancanza di quella famosa prima parte dell’integrativo, di quella politica, di quella relativa alle informazioni e di cui, in fondo, ci interessava poco. Meglio guardare la tabella dei soldi.

Ma noi abbiamo bisogno del pane e delle rose, anche se si tratta di rose in fondo poco profumate e divertenti. Se ci deve essere un piano triennale per l’impresa, perché non deve esistere un piano triennale per i lavoratori, che fissi dei livelli per la loro crescita, e magari degli indicatori della loro felicità, del loro benessere ?

Custode, a che punto è la notte?

Omaggio al nostro presidente intervista da:“Notizie in circolo” del Giugno 2002



Sono arrivato in Unipol nel 1968 (o era il 1966?) dalla Coop Fornaciai (Oggi Edil Fornaciai); mi portavo dietro la mia esperienza lavorativa, che si pensava potesse essere utile in questa compagnia. Non sapevo niente di assicurazioni, e non mi sono mai considerato un assicuratore, e sono contento di non saperne niente di assicurazioni.

Dipendevo direttamente dal Direttore amministrativo; ho cominciato a lavorare, poi da un momento all’altro, mi sono trovato all’ ufficio personale, ad occuparmi di paghe , stipendi e non so cos’altro. Il responsabile del personale, una nostra collega era andata in maternità, così il capo mi convocò e mi disse: da domani vai al personale. E non ci fu niente da fare: mi trovai a fare gli stipendi a mano!! Eravamo 85, gli stipendi si calcolavano a mano, con i livelli, gli scatti di anzianità, i diversi contratti. Però dovevo occuparmi ancora dell’immobiliare e di tutte le questioni che riguardavano manutenzione e quant’altro della nostra sede, del “palazzo del cane” in Via Oberdan . L’azienda crebbe, io venni via dall’ufficio del personale e tornai all’immobiliare, poi diventato Mobiliare, cui si aggiunsero gli acquisti e lì sono rimasto fino alla pensione. Veramente, non ho mai fatto l’assicuratore, ed è stata la mia grande fortuna, ma ho vissuto questa azienda; ho vissuto i cambiamenti, le tensioni, le crisi e le lotte. Il più grande dei cambiamenti è stato l’arrivo di Zambelli; con lui l’azienda è cambiata come idea, come concezione, come principi, Con Zambelli è arrivata in Unipol la visione del movimento cooperativo; fino ad allora la Lega delle cooperative aveva pesato relativamente. Il precedente amministratore, Getici (dipendente Federcoop e consulente assicurativo della Lega presso la compagnia che assicurava le aziende aderenti alla Lega) ebbe l’idea della Compagnia. Si trovarono d’accordo solo alcune Federcoop, quelle emiliane (Bologna, Modena, Reggio Emilia); Unipol ebbe molta autonomia, quasi distanza dalla Lega. La Lega pesava poco dentro Unipol, e tutto questo cambiò con l’arrivo di Zambelli; cambiò anche l’immobiliare, investivamo solo in supermercati per la Coop di consumo!. Abbiamo fatto una grande fatica a crescere, le persone che entravano in Unipol non erano assicuratori,lo sono diventate. Me ne sono andato nell’86, quando l’azienda stava cambiando troppo; diciamo che le mie idee non coincidevano con quelle di chi decideva. L’azienda, ora, non è più quella che ho lasciato, soprattutto sul piano dei rapporti personali; voglio parlavi del circolo. Il circolo è importante, anche se qui dentro è pieno di asini, è sempre stato pieno di asini, ma è poi giusto così; ma il circolo è l’ultimo elemento di socialità rimasto in Unipol, l’ultimo pezzo della vecchia Unipol. E mi pare che l’azienda lo sopporti, lo accetti a stento. Ho sempre più l’impressione che, una volta che io smetta di impegnarmici, non si farà niente per farlo sopravvivere. Perché il circolo costa, ma non tanto in soldi, quanto in impegno, in cuore; i rapporti fra le persone sono sempre più difficili, il sociale non esiste più, ed il circolo, è l’unico strumento per fare qualcosa insieme, che combatte questa tendenza. Oggi basta una promozione a farti cambiare modo di fare, magari a non farti vedere più nel circolo; ce ne sono, ce ne sono che fanno così. Una volta dal circolo passavano tutti. Datemi retta, sono le persone che cambiano. E non sempre in meglio.



IL BAMBINO E L’ACQUA SPORCA




Dove eravamo rimasti ? A quale ora della notte? E ora, da dove ricominciare? (e con
che tono?) Dai risultati del referendum sull’ integrativo ? ( incazzato,
perplesso). Dall’intervista di Consorte a Matrix ? (di passaggio dal
nostalgico all’incazzato, perplesso). Dall’aria che tira in azienda? (perplesso
e basta)
E se mentre scrivo queste righe sento il Papa dire che bisogna cambiare il
modello di economia mondiale (buon vecchio Carlo Marx, dove sei?), io di
cosa devo parlare, del terzo segreto di Fatima? . Dire che sono tutte facce
della stessa medaglia (escluso, forse, il terzo segreto di Fatima, forse) è
persino banale, ma forse inevitabile.
E poi c’è qualcosa che, se non è il terzo segreto di Fatima, ci va molto vicino. Mettetevi in cuffia e preparatevi a rispondere; la domanda è questa. “L’integrativo appena chiuso aveva tutti le ragioni per chiudersi in modo spettacolare. Azienda e rappresentanze sindacali dovevano segnalare un cambio di rotta, la discontinuità con il passato, un ritorno alla trasparenza, addirittura a valori condivisi. Perché, allora, è finito con il 36% di voti contrari in direzione ( e tanti mal di pancia fra il 64% che ha votato a favore), con un forte senso di scontentezza ed interi reparti con il mugugno?” Dov’è l’errore?

Rispondere che è andata bene perché il 71% dei dipendenti ha votato a favore ( glissando sulla diversa valutazione fra Direzione e periferia e altre aziende) è fare un torto alla propria intelligenza e non voler vedere/ affrontare i problemi

In azienda l’aria non è buona., è aria di normalizzazione, ed anche la vicenda del voto dell’integrativo va letto in quest’ottica. Non è finita solo l’epoca di Sacchetti e Consorte, non si è chiuso solo quel capitolo, ma un’intera parte del libro della nostra storia. Insomma , quando si dice buttare via il bambino con l’acqua sporca; abbiamo capito qual’ è l’acqua sporca , sul bambino permangono visioni diverse.

Ma quali sono le prove , le evidenze di questo cambiamento? Chi è perché sta buttando via il bambino ? Capita, talvolta, che una sensazione preceda il reale avverarsi del mutamento, che le cose cambino senza che si sia , alla prima apparenza, modificato nulla di ciò che ci appare. E’ come alla fine di un amore: ce ne accorgiamo, anche se non lo vogliamo ammettere (e non lo ammetteremo poi), un secondo prima che lei pronunci le fatidiche parole “Caro(a) , dobbiamo parlare”, e un secondo dopo, quando ci rendiamo conto che non hai proprio niente da dire. Cos’è cambiato , in fondo? Solo andati via in 2 , ne sono arrivati 3, cosa volete che sia ?

In realtà, i due che se ne sono andati, paradossalmente,
pur avendo determinato e guidato il cambiamento, la trasformazione di quest’azienda, ne rappresentavano la continuità con la precedente storia. Nella loro continuità, nell’esserci stati “prima” ( ai tempi di Zambelli, per capirci) e nell’esserci poi (erano loro e solo loro a sapere e disegnare il futuro di Unipol) , rappresentavano ad un tempo, passato, presente e futuro.

Paradossalmente, pur avendo dato un buon colpo alla “partecipazione” ,alla “differenza”, di quest’azienda (vi ricordate la pubblicità aziendale dell’ “azienda diversa”), ed avendo sostanzialmente deciso la fine di questi principi, ne rappresentavano la reale esistenza, in quanto eredi o ultimi rappresentanti della generazione “eroica”, di quella che aveva fondato l’azienda. Impersonificavano, pur negandola nelle pratiche quotidiane, pur distruggendola nei fatti, la leggenda di un’azienda in cui quadri, dirigenti, direttori avevano cominciato la loro “carriera” dal gradino più basso, magari dall’archivio.

Sacchetti stesso aveva cominciato come perito, mentre Consorte all’inizio era “solo” un direttore fra i tanti. Provate ad immaginarvela adesso una cosa del genere; certo, non era più così da un pezzo, ma i totem , quelli che l’avevano fatto, erano ancora fra di noi. E i simboli contano, eccome se contano.

Adesso, sempre di più la gran parte dei destini (aziendali), saranno decisi pochi passi dopo l’ingresso, e ciò che manca ( figure, ruoli , procedure, programmi) non lo si fabbricherà necessariamente più in casa , ma lo si andrà prendere dove più conviene, magari dove lo si trova già pronto. Dov’è , dove sarà la differenza? Mi raccontava un (ottimo) agente: ”Consorte ci ha fatto lavorare come matti, gratis, ed eravamo contenti di farlo! “.

Ecco, adesso non ci sono più incantatori di serpenti e (forse) non si lavora più gratis; adesso che siamo , anzi, vorremmo essere normali, ognuno dovrà stare molto di più al proprio posto. Il che non è esattamente una minaccia, anzi dovrebbe essere un’opportunità: una sana regolamentazione dei propri compiti, un confine da non valicare, delle procedure che definiscono quello che devi o non devi fare.

Ad esempio può essere interpretato come una garanzia sui ruoli e sulle responsabilità , e che “non si lavori gratis”, che si venga pagati per quel che si deve. Il problema è capire se si sarà contenti; l’esser contenti era, nelle parole del mio amico agente, l’idea di collaborare alla realizzazione di un grande cambiamento che avrebbe portato giovamento a tutti ( il condizionale era d’obbligo).

Altro problema è il quanto si deve essere pagati; prima c’era l’impalpabile ( e vaga) moneta della prospettiva e del cambiamento. Adesso, invece, si vuole capitalizzare, e la giusta paga è “di più!”. Di più di adesso, almeno quanto i colleghi di Milano e così via.; questo era il sentire che si era diffuso durante la trattativa dell’integrativo ; il famoso (famigerato) “cacciate i soldi”. Insomma, dateci quelli che ci dovete, le bevute devono essere pari.

Pericoloso, molto pericoloso, e si è già visto con la gestione del nostro integrativo. Il rischio è questa definizione di ruoli, di parti,che diventi un confine invalicabile, e la fine di quella che era, in parte, la differenza di Unipol. Differenza che era (è) la capacità di molti (alcuni) di noi (dipendenti, agenti) di farsi carico di problemi maggiori dei propri, di procedure che non c’erano (per adesso). Da qui opportunità (poche) e minacce , ma anche speranze ( tante e frustrate). La prospettiva è quella di andare a “caccia” di soldi, piantarsi sulla riva del Piave dei soldi , lasciando completamente alla direzione dell’impresa qualsiasi decisione, qualsiasi idea di cambiamento.

In questo anche lasciando in mezzo al guado (o al guano) quanti il processo di cambiamento avevano già cercato di portare avanti o avevano idee per farlo, ed ora rischiano di trovarsi davanti a prospettive organizzative e di lavoro decise senza di loro. La soluzione che mi piaceva, era partire dalle speranze: un contributo “dal basso” alla “ricostruzione” dell’azienda., un dare ancora una volta, ma con una sana aspettativa di vedersi riconosciuta questa proattività. Sancire la diversità della compagnia e gratificare i dipendenti. Stiamo imboccando questa strada?

La strada dell’integrativo, (e , specularmente, parte delle contestazioni fatte) sembra portare da un’altra parte: l’azienda a fare l’azienda, ai lavoratori la giusta mercede, senza troppe commistioni . E qui torniamo al terzo mistero di Fatima, quella che riguarda la mancata entusiastica conclusione dell’integrativo. Non voglio cercare di fare lezioni o morale: la domanda rimane senza risposta. Ciascuno troverà la propria

Insomma , stiamo davvero per buttar via il bambino con l’acqua sporca o possiamo mantenere una speranza?

GlI ULTIMI GIAPPONESI

In tempi lontani e non sospetti, insomma, tanti anni fa, come in una bella favola, provarono a spiegarmi come funzionavano, all’interno del movimento cooperativo, i rapporti fra dipendenti (soci) e le loro aziende. Volendo colpire la mia (allora) giovane immaginazione mi parlarono del lontano Catai; anzi no, era il Giappone. Insomma , in questa terra lontana, che produceva lottatori di Sumo, Geishe e moto Honda, il rapporto fra i dipendenti e le loro aziende erano talmente stretti che non era infrequente il caso (documentato da filmati ) di dipendenti in lacrime davanti ai cancelli delle fabbriche. Non potevano entrare in fabbrica perché erano in ferie, e non potevano sopportare una simile umiliazione. Si trattava di un caso limite, ma la questione, imparai, era ben più seria, ed era una delle ragioni alla base del successo dell’industria giapponese e dell’alta qualità dei suoi prodotti: il rapporto di fidelizzazione fra azienda e dipendenti. Un rapporto che derivava da una società feudale passata improvvisamente all’industrializzazione, ed in cui le “conglomerate” avevano preso il posto dei signori della guerra. Insomma, senza annoiarvi con analisi sociologiche e storiche, l’azienda giapponese aveva creato, per i propri dipendenti, un universo chiuso, fatto di onore, feste aziendali, cassette per i suggerimenti, premi per la maggior produzione, asili nido, mense ecc ecc. Un’identificazione totale, insomma.
Nel povero occidente, bastonato dalla produttività e dai bassi costi dei giapponesi (poi sono arrivati tutti gli altri, con metodi produttivi ancora peggiori) l’unico esempio di “fedeltà” aziendale riscontrabile in quegli anni in Italia era quello fra le aziende della cooperazione ed i suoi dipendenti. Certo le ragioni ideologiche erano lontanissime, e la produzione non era il primo obiettivo dell’azienda cooperativa: al centro c’erano le persone ed il loro lavoro. Nel corso del 900 la storia della cooperazione e quella del movimento operaio si sono più volte incrociate, in un rapporto complesso, a volte conflittuale (Lenin non si fidava molto delle cooperative..), fino ai giorni nostri. Insomma, anche noi in Unipol, avevamo un po’ gli occhi a mandorla , senza saperlo; eravamo un po’ giapponesi per il nostro rapporto “attivo” con il lavoro. Non avevamo una buchetta dei suggerimenti, ma le procedure, le modalità del lavoro venivano molto spesso prodotte dal basso. Per tante cose, insomma, di cui abbiamo già parlato eravamo anche noi dei “figli del sol levante “ (banzai!) Non so se gli operai giapponesi piangano più davanti ai cancelli delle fabbriche chiuse; non credo; o , se lo fanno, lo fanno per le stesse ragioni di un cassa integrato nostrano. E anche a noi , comunque, ora viene un po’ da piangere. Anche qui da noi le cose sono cambiate, ma noi rimaniamo, agli occhi di qualcuno, dei “giapponesi”. Solo che questa volta si parla di noi come dei giapponesi che non hanno capito :  che la guerra è finita, che la guerra l’hanno persa! Adesso l’obiettivo della società civile è stanarci dalla jungla e riportarci nel mondo civile.


Un mondo civile fatto di valori ben più solidi di quelli (obsoleti e paternalisti) che ci tiravamo dietro; un mondo meraviglioso con parole nuove come esternalizzazione, giovani talenti e holding. Non è un mondo nato all’improvviso, negli ultimi 12 mesi. Anzi. A nostra insaputa (a nostra insaputa ?) era da un po’ di anni che si stava andando in quella direzione e, in fondo, questo nuovo mondo è esattamente quello che il vecchio ci stava preparando. Ma si, diciamocelo, un po’ l’avevamo capito. Non siamo meravigliati, quindi, del perché le cose vanno in questa nuova direzione: era già stato deciso, anzi, forse sarebbe stato persino peggio . Siamo arrabbiati perché la situazione mutata faceva pensare alla possibilità concreta di un cambiamento , e invece di questo cambiamento atteso si vede molto poco, anzi. Il cambiamento c’è, ma si sta andando da un’altra parte. Si era sperato ( avevo sperato, e l’avevo anche scritto sperando che qualcuno ci credesse) che per cambiare, per ricominciare, si potesse ripartire dal valore del nostro lavoro, recuperando quanto era stato sottratto, quanto era stato dato a scatola chiusa verso il sol dell’avvenire e non era mai stato reso. Avevamo (avevo) ipotizzato che potesse essere il nostro lavoro la base, le fondamenta del cambiamento; che si partisse dal lavoro e dalla sua esperienza. Un lavoro che aveva permesso ad Unipol di uscire da acque assai difficili, da crisi che avrebbero schiantato altre imprese ben più solide. Certo, la barca non la guidavamo noi, ma eravamo noi (insieme ad altri compagni di viaggio e di avventura quali gli agenti e i loro collaboratori) ben saldi ai remi, anche se un po’ incatenati; insomma, si remava al ritmo del tamburo, come in Ben Hur, ma, in fondo, eravamo d’accordo. Adesso, invece, stiamo scoprendo che non si riparte dal nostro lavoro, ma dai meccanismi. In fondo l’azienda è una macchina; la trireme va, chiunque sia incatenato ai remi: giovani talenti, esternalizzati, chiunque, purchè remi là dove ci porta la rotta . Questo vuol dire svuotare in qualche modo quest’azienda; credo di non sbagliare dicendo che c’era ancora una bella fetta di dipendenti pronta a giocare il proprio tempo e rinnovare la propria fedeltà in cambio di un atteggiamento diverso. Il ragionamento che ci si faceva era: siamo stati trattati male,ma adesso le cose cambieranno. E’ arrivato il momento del riscatto, potremo dare il meglio di noi stessi, ovvero qualcosa di più. Il ragionamento aziendale, per quel che ci è dato di capire non è partito “dal lavoro”, ma dai ruoli già definiti. E per quadro Unipol un po’ frustrato e un po’ sfigato che ha dato tutto quello che poteva (e di più non poteva dare, perché non aveva alcun modo di crescere) l’unico pensiero sembra essere: “Bene, questo qui è stato vagliato, è sfigato e sta bene dove sta”. Non c’è alcuna ragione per rivedere la sua valutazione, il suo ruolo, il suo lavoro. Stabiliamo delle regole e cerchiamo, magari, chi, giovane anagraficamente, possa garantire un futuro all’azienda. Ad un’azienda che sta per diventare una e bina, nel senso che gran parte di quelli con la bandierina Unipol finiranno nel Gruppo Unipol Finanziaria ( speriamo che non scelgano per acronimo GUF; per i giovani talenti GUF= Gruppo Universitario Fascista), solo una piccola parte reggerà le sorti dell’Assicurazione Unipol. E questo non fra qualche anno: a giugno dovrà essere già così, occhio e gamba fra 4 mesi. E noi, intanto siamo bloccati discutere dell’esternalizzazione del lavoro di Sertel; battaglia assolutamente giusta e necessaria, ma allo stesso modo (e non paradossalmente) di retroguardia, perché, sul tema stesso della “cessione” di lavoro immaginate cosa potrebbe avvenire nell’ambito della “cessione di rami d’azienda”. (la creazione della Holding si fonda proprio sulla cessione di rami d’azienda). Insomma, ci stiamo difendendo,ma è opportuno che ci guardiamo le spalle, perché c’è il rischio che da lì attivi l’attacco peggiore. Non è un problema sindacale o politico: stiamo parlando persone, del loro lavoro, delle oro attese, delle loro speranze. C’era una grande chance per i nuovi vertici aziendali, ed era andare in qualche modo, magari anche strumentalmente, incontro alle speranze di chi in questa azienda, in diversi ruoli (dipendente, agente, collaboratore d’agenzia) aveva investito molto e a fondo perduto. Lo si poteva fare, magari anche pagando un prezzo, ma investendo in questa direzione: l’idea che ci siamo fatti è che si vada da un’altra parte. Lo so, ci diranno che stiamo sbagliando, che non capiamo e che la guerra è finita; se vogliono convincere noi, ultimi giapponesi, ci facciano vedere qualche gesto di pace, facciano vedere che la guerra è veramente finita e c’è una nuova era. Usciremo subito dalla Jungla dove, peraltro, si sta scomodi.

Una giornata particolare

Diciamocelo, mi sarebbe piaciuto scrivere un altro articolo, raccontare di cose lievi e divertenti. Parlare di questo grande raduno in quel di Milano, con il rastrellamento di tutti i funzionari del gruppo. Raccontare di una partenza avvenuta alle prime luci dell’alba, di una folla di funzionari inebetiti dal sonno e da altre droghe di cui sono consumatori abituali. Della ressa intorno agli autobus ( e non ai vagoni piombati come qualche maligno aveva insinuato) con una corsa in cui la metà delle persone cercava di salire per potersi trovare insieme a qualcun altro, e l’altra metà si affettava per evitare di trovarsi con chi li stava cercando. Di autobus pieni di bancari impettiti e di altri in cui si cercava vanamente di ricreare il clima dell’ultima gita scolastica. Di una sosta all’Autogrill dettata dal morboso desiderio di caffeina ed impellenti motivi fisiologici e finita in una ressa inumana davanti al bancone del bar ed in una lunga fila di questi funzionari , in buona parte anziani ed incontinenti, davanti ad un prefabbricato contenente 4 WC funzionanti (?) ed angusti (1 metro per 1 metro, solo lo spazio di movimento per tirarlo fuori;qualcuno è rimasto bloccato lì fino al ritorno). Di corsi che si svolgeranno fra giugno e ottobre in quel di Reggio Emilia, nel cuore della pianura padana, in clima con le canzoni di Ligabue, le zanzare, i ricordi di meeting vicepresidenziali e quelli densi di foschi presagi del triangolo rosso di subito dopo la guerra. Di un buffet freddo di cui si sono intuite luci ed ombre quando si è visto che era organizzato dalla Camst ; le ombre sono rimaste, le luci sono diventate accecanti per il calore del piazzale di cemento che ha riscaldato le fette di salame e di mortadella, lasciando ai degustatori un ricordo incancellabile. Di un ritorno nella miglior tradizione nazionale da Caporetto in poi, fra commenti, pisolini e telefonate alla moglie/marito per comunicare l’avvicinarsi dell’ora del ritorno. Il tutto terminato con lo splendido ingorgo in tangenziale che ci aspettava, impaziente , dalla mattina, da quando , causa la levataccia inconsueta , non ci eravamo presentati al consueto appuntamento con la fila. Insomma questo racconto lo farà qualcun altro; io rimango a quelle 3 ore circa passate nel bellissimo ed innevato auditorium di Aurora, con un palco a forma di prua di una nave, un cuneo infilato nella sala, con i relatori schierati sui due lati, resi visibili a tutto l’auditorio da una doppia immagine proiettata su un doppio schermo.
Quello che è stato detto sta assumendo concretezza in questi giorni; quando queste pagine saranno pubblicate la ristrutturazione del Gruppo sarà già stata varata, i corsi per funzionari con annesso teatro di impresa in calzamaglia( meglio se nera) saranno già storia, anzi, leggenda (metropolitana e aziendale). Non esisterà più l’Unipol che molti di voi, i meno giovani, i più rottamandi hanno conosciuto e sarà in atto un gran processo di ristrutturazione, un gran tourbillon con spostamento di ruoli, di uffici, di scrivanie, di donne e uomini. Una migrazione epocale, che potrebbe sconvolgere abitudini decennali di caffè insieme, di incontri semi clandestini, di quotidianità. La fine di una storia durata oltre quarant’anni. Perché? Perché tutto questo. Ho provato a capire, per darmi una spiegazione, per potervelo raccontare. Un famoso giornale della Sera, in un articolo pubblicato il 26/2/2007 parlava del cambiamento epocale che ci sarebbe stato in Unipol, della fine del paternalismo che l’aveva retta in tutti questi anni. Paternalismo?. Ho fatto lo sforzo ( inusuale per quel che mi riguarda, lo ammetto) di ascoltare chi la pensava diversamente da me circa quest’azienda, e mi si è composto un quadro ben diverso da quello che mi ero sempre fatto. Vedete, in questi anni, soprattutto in questi ultimi anni avevamo visto tutti l’azienda crescere ed allontanarsi da noi; un’azienda in cui “contavamo” sempre meno, ma che continuava a chiedere. La speranza era che tutto prima o poi, sarebbe tornato indietro, e con gli interessi, e ci saremmo goduti il grande gruppo finanziario , con un ruolo e giustizia per ciascuno di noi. Abbiamo continuato a credere, come ci raccontavano, che eravamo ganzi assai, e non riflettevamo sul fatto che non facevamo più formazione, che non si imparava più niente di nuovo, che le tecnologie, che avevamo dominato per anni ( il CED più grande dell’Emilia Romagna, il maggior cliente dell’IBM) avevano messo la freccia e ci stavano sorpassando. Mentre sognavamo si accavallavano delle ristrutturazioni,che non mutavano altro se non alcune posizioni di potere.


Rimanevamo indietro nell’evoluzione tecnologica, di processo, di prodotto. A molto di noi veniva di chiesto di fare del proprio meglio per tenere insieme le cose, e lo si faceva volentieri ( per l’azienda, il radioso avvenire e magari, per i meno astuti di noi, per le sorti del socialismo mondiale), tenendo insieme procedure, processi, prodotti, programmi con nastro adesivo, ago e filo,pazienza e passione. Così facendo avevamo l’illusione di muoverci, di crescere; in realtà rimanevamo fermi, le piattaforme innovative, le nuove metodologie ci facevano ciao ciao con la manina mentre rimanevamo lì sulle scrivanie a pensare a come fare andare la baracca con quel che passava il convento.
Ci abbiamo creduto, ci abbiamo provato. Forse, come ha detto qualcuno in quel di Milano, noi, dai funzionari agli operatori del Call Centre, siamo quelli che ci hanno provato di più, quelli che hanno dato il maggior contributo anche innovativo. Questa era una situazione paternalistica ? non credo. Certo, il merito individuale, in questi anni ha fatto poco capolino non perché avessimo realizzato il socialismo paternalista, ma perché la situazione veniva tenuta ferma, immobile, per poterla governare. Il gruppo dirigente ha avuto pochi ricambi o innesti perché nessuno ha mai pensato di dovere fare crescere quelli che erano sotto .
E quelli che erano sotto avevano ben pochi modi di fare sentire la propria voce; questo non è paternalismo, è una sorta di “tirannide”, come ho già avuto modo di raccontare. Insomma, per dirla con il sommo poeta e con i Rokes :”ma che colpa abbiamo noi?”. Chi è arrivato in Unipol alla fine della grande burrasca, una volta fallito l’ultimo attacco al cielo, ha letto quest’azienda come ferma , incapace di innovarsi, bloccata. Un’azienda da cambiare, subito, incentivando la mutazione inserendo nuovi attori, tagliando il più possibile i ponti con il passato e con chi l’aveva rappresentato. Via l’acqua sporca. Ma anche il bambino.
Ancora una volta tutto bianco o nero; invece di comprendere le ragioni dell’isolamento e dell’immobilità di un’azienda che aveva, però, allo stesso tempo, meravigliato il mercato per la sua capacità di crescere e di recuperare situazioni disperate (come è fallace la memoria nel mondo della produttività !), invece di capire e recuperare gli errori, si azzera tutto e si ricomincia da capo. Correre, crescere, competere, migliorare.Senza guardare in faccia a nessuno, perché, in assenza di paternalismo, chi avrà meritato avrà la sua parte, la sua crescita, la sua promozioni. E chi si ferma è perduto. Alè!
In linea teorica forse giusto, ma la teoria non fa i conti con la storia, con i conti in sospeso, con le aspettative, con quanto è stato dato e che è servito a fare si che chi arriva adesso possa ancora trovare un’azienda , un gruppo che è il terzo o quarto (a seconda del momento/ statistica) nel panorama assicurativo nazionale. In mancanza degli ultimi, deprecabili, anni , arrivando adesso non si sarebbe trovato molto, ma questo non è il momento delle riconoscenze verso il passato. Perché i conti con il passato, a questo punto , si fanno solo seppellendolo, il passato. Il passato o il futuro, bianco o nero, o da una parte o dall’altra: scegliere, prego.
E a spiegare cos’è l’azienda e a delinearne il futuro ci penseranno le centinaia di consulenti che sciamano per l’impresa, ricordando più uno dei flagelli d’Egitto che una soluzione a dei problemi, e che del passato pensano esattamente ciò che disse Red Butler a Rossella O’ Hara nel finale di “Via con il vento: :”Francamente me ne infischio”. Gente senza passato con uno splendido futuro davanti: consulenti, nuovi talenti e vai così. Un’azienda senza storia è un’azienda senza anima, e poi non va a finire mica tanto bene, sapete.
Se non abbiamo capito bene, se non abbiamo letto i vostri pensieri, bhe, non è colpa nostra, noi abbiamo capito quello che abbiamo visto. Se è diverso, spiegatecelo meglio: molti di noi sono anziani e si diventa un poco sordi. Avremmo gradito partecipare al vostro cambiamento, dare una mano, raccontare quello che sappiamo, dare il nostro contributo. Chiedevamo poco: considerazione, attenzione, riconoscenza. Non siamo attaccati alle nostre sedie, non abbiamo paura di cambiare.
A quest’azienda molti hanno dato molto: forse meritavano di meglio, sicuramente lo meritava la storia di quest’azienda, della sua originale ricetta, che non deve andare persa. Lo meritava il lavoro vivo, delle persone, , che non può essere spostato o trasferito con lo schioccare delle dita, come a dimostrare che tanto quello è stato fatto sinora (ed è il risultato di anni di esperienza) può essere acquisito da altri in pochi giorni. Se ci si pensa si scopre che non è vero, che non si può fare a meno della propria storia: e allora perché non agire di conseguenza? .